I nonni animatori

Lui è mio Nonno Ignazio, marito di Nonna Vitalia

Anche se, a prima vista, mio nonno Ignazio poteva sembrare un po’ burbero, la sua personalità nascondeva una grande bontà d’animo. Non era un uomo che si esprimeva attraverso le convenzioni o i cliché del mondo moderno, ma attraverso un linguaggio semplice, diretto, spesso intriso di saggezza popolare e di un’umanità che oggi sembra sempre più rara. Nonno Ignazio non era solo un parente, ma una figura che incarnava la tradizione, i valori e la cultura di una Sardegna che, a partire dalla sua generazione, stava lentamente cambiando, pur mantenendo intatta la propria essenza.

Da bambino, fu il mio primo vero animatore, ma non in senso tradizionale. Non parliamo di trucchi, palloncini o giochi organizzati in modo artificiale, ma di un coinvolgimento autentico, radicato nella vita rurale e nella saggezza contadina. Mi faceva giocare con maialetti vivi e mi portava sempre con sé a caccia di cavallette, per farmi scoprire il mondo in modo diretto, naturale e senza fronzoli. Forse il fatto di essere il primo nipote maschio in una famiglia numerosa, composta da venti nipoti, gli dava un privilegio speciale nei miei confronti. Ma non è solo questione di numeri: era la sua attitudine, il suo modo di guardare il mondo, che lo rendeva diverso. Lui mi considerava un piccolo adulto, e mi trattava di conseguenza.

Mi parlava esclusivamente in sardo, un idioma che non solo rappresentava la lingua del cuore, ma che rifletteva anche un legame indissolubile con la sua terra e la sua cultura. Non era solo un gesto affettivo, ma una scelta consapevole di trasmettermi un’identità e una visione del mondo che, con il passare degli anni, sarebbe diventata sempre più rara. Non c’era mai un velo di paternalismo, mai una sottovalutazione delle mie capacità: mi parlava come a un pari, come se fossi in grado di comprendere, anche da bambino, le complessità della vita. Le sue teorie, che sembravano frutto di un sapere antico e quasi dimenticato, erano vere e proprie perle di filosofia popolare, argomenti che avevano radici nella tradizione, ma che, allo stesso tempo, risuonavano di una profondità che oggi sembra difficile trovare.

Alcune delle sue parole erano così colorite, così forti, che non ve le posso raccontare: erano espressioni di una Sardegna ruvida, senza peli sulla lingua, dove la verità veniva sempre detta, senza risparmiarsi. Oggi, quando ripenso a quei momenti, mi rendo conto che quel linguaggio, così diretto e talvolta crudo, era anche una forma di resistenza alla modernità, un modo di mantenere viva una cultura che stava rischiando di essere sopraffatta dalla globalizzazione e dal dilagare di valori omologati.

Un episodio che ricordo con particolare affetto riguarda un regalo che mi fece quando avevo cinque anni. Un gatto, tigrato, che somigliava al celebre Stanlio. Chiesi al nonno come si chiamava e lui, con il suo sorriso sornione, mi rispose: “Si chiama Arrettu”. Il nome, ovviamente, aveva un significato che io, all’epoca, non riuscivo a cogliere. Andavo in giro per il paese, orgoglioso, a raccontare a tutti che il mio gatto, è “Arrettu”, senza sapere che il nome in realtà non era proprio… politicamente corretto. La gente rideva, ma io non capivo il motivo. Il significato del nome rimase a lungo un mistero per me, ma è un esempio perfetto del suo umorismo pungente, che mescolava ironia e saggezza, tipica di un uomo che aveva visto molte cose nella sua vita.

Mi chiamava “Danielicontu”, un nome tutto attaccato, come lo chiamava anche mia nonna. Non c’erano nomignoli affettuosi, non c’erano diminutivi, solo quel suono che aveva il peso di una tradizione, di un legame che andava oltre le parole. Ogni volta che mi diceva: “Danielicontu, andausu anchè is proccus”, ogni altra preoccupazione spariva: non c’erano soldatini, non c’erano macchinine, non c’erano palloni. C’era solo lui, Nonno Ignazio, e la sua autorità silenziosa, la sua capacità di attrarre l’attenzione senza mai alzare la voce.

Nonno Ignazio è stato una fonte inesauribile di saggi consigli, ma era una saggezza che, all’epoca, non ero in grado di comprendere pienamente. Solo oggi, con il passare degli anni e l’esperienza che la vita mi ha dato, riesco ad apprezzare davvero il valore delle sue parole. Quelle teorie che sembravano tanto stravaganti, tanto distanti dal mondo moderno, oggi le riconosco come vere e proprie riflessioni sulla condizione umana, sulla vita e sulla società.

E chissà, magari alcune di queste sue “teorie da Osho Sardo” finiranno anche sul mio palco. Un modo, forse, per rendere omaggio a lui e alla sua capacità di guardare il mondo con occhi che sapevano cogliere la bellezza nelle cose più semplici.